La digitale (Digitalis purpurea L.) è una pianta tipica dell’Europa dettentrionale, In Italia cresce allo stato spontaneo soltanto in Sardegna, mentre sulle Alpi si trovano popolazioni naturalizzate per via della sua coltivazione per scopi medicinali che si faceva in passato. Privilegia radure boschive e pascoli montani dai 500 ai 1700 metri di altitudine.
Descrizione
È una pianta erbacea biennale o perenne, appartenente alla famiglia delle Plantaginaceae. La radice è fusiforme, ben ramificata e tomentosa; il fusto è eretto, compare nel secondo anno e può raggiungere i 160 centimetri di altezza. Le foglie della rosetta basale, che compaiono invece al primo anno, sono radenti, disposte a spirale, hanno una forma ovale-ellittica, sono pubescenti, con margine crenulato o raramente seghettato, il loro picciolo è alato ed è lungo 1,5 – 7 centimetri. Le foglie mediane e superiori sono invece alterne, prive di picciolo, ovali con il bordo crenato e più evidenti da metà fusto. La fioritura è progressiva e prolungata ed avviene dal mese di maggio a quello di luglio, visibile all’apice dei fusti solamente da un lato e riunita in grappoli di grandi e numerosi fiori penduli la cui corolla è tubulosa-campanulata e formata da cinque lobi con uno grande inferiore, possono presentarsi di colore rosso carminio esternamente o rosato o bianco e con macule rosso-nere cerchiate di bianco all’interno. Il frutto è una capsula ed il seme è quasi rettangolare con tegumento reticolato.
Non fate arrabbiare le fate!
Digitalis deriva dal termine latino “digitus” che significa dito per via della corolla dei fiori a forma di ditale ma che sembrano anche incantevoli rifugi per dormire. Leggende narrano infatti che le fate sono solite prediligere i fiori della digitale per dormire e proprio per questo motivo fin dall’antichità si sconsigliava di tagliare, spostare o trapiantare queste piante proprio per evitare di irritarle.
“Digitale purpurea” di Giovanni Pascoli
Nella poesia di Giovanni Pascoli la digitale diviene simbolo dell’attrazione mortale dove una donna narra in un gioco di allusioni l’incontro con quel fiore di morte che:
Ché si diceva: il fiore ha come un miele / che inebria l’aria; un suo vapor che bagna / l’anima d’un oblìo dolce e crudele.
Nella realtà è una pianta tossica, ma non letale se non è assunta in dosi eccessive e per lungo tempo.
Da pianta tossica ad alleata contro l’idropisia
Nonostante il suo potenziale letale, la digitale veniva utilizzata nella medicina popolare europea già nel Medioevo per trattare mal di testa, spasmi, epilessia, gozzo e tubercolosi. Fu soltanto però grazie al trattato pubblicato da William Withering, nel 1785, che si scoprì la sua efficacia contro l’idropisia, oggi chiamata anasacra, un tipo di edema causato dallo scompenso cardiaco congestizio, una condizione per cui il miocardio non si contrae in modo efficace, determinando il versamento e l’accumulo di fluidi tra i tessuti del corpo. L’utilizzo della digitale provoca l’aumento della forza delle contrazioni muscolari del cuore, riducendo l’accumulo dei fluidi. I principi attivi delle digitali sono glicosidi cardiaci del tipo dei cardenolidi, tra i numerosi i due più comunemente utilizzati per il trattamento sono la digossina e la digitossina. Entrambi sono composti simili che vengono eliminati tramite metabolismo del fegato o attraverso i reni.
Morte di un gentiluomo
Cangrande della Scala (1291- 1329) divenne governatore e signore di Verona nel 1311. Ricordato in quanto mecenate del sommo poeta Dante Alighieri, fu anche un abile condottiero. Il 18 luglio del 1329 conquistò Treviso riuscendo così a coronare il suo progetto di sottomettere tutto il Veneto. Ma la gloria ebbe breve durata perché, dopo pochi giorni, Cangrande fu colpito da una grave malattia e morì. Subito si diffusero voci di un possibile avvelenamento.
Nel 2004 il suo corpo venne riesumato ed in seguito all’autopsia si scoprì che morì a causa dell’avvelenamento avvenuto in seguito all’ingestione di un infuso o di un decotto a base di camomilla, gelso e grandi quantità di digitale
A cura di Fabiano Ermini e Roberta Zirone dell’associazione Hortus Simplicium