Cammina, cammina, ne ha fatta di strada il presepio da quella notte di Natale del 1223. Come il suo inventore, Francesco d’Assisi, ha attraversato i continenti e i secoli, diffondendosi in tutto il mondo e arrivando fino a noi. Cammina, cammina. Oltre i mari e i monti, oltre gli affanni, le guerre, le carestie e persino le pandemie. Paradossale, se ci si pensa bene, per una tradizione ‘statica’. Che però possiede tutto il dinamismo del mondo, anzi la scintilla che lo ha cambiato. E che anche in tempo di Covid si scopre viva, vitale, inclusiva, pur nella sua semplicità. Il presepio custodisce la grammatica dell’umano e la sua sintassi con il divino. E ci mette sotto gli occhi il mistero dell’Incarnazione attorniato da quelle che la Gaudium et spes nel suo icastico incipit definisce «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono ». L’intuizione di san Francesco è diventata così una scena a geometria variabile che nelle case, negli ambienti di lavoro, negli spazi pubblici ci fa riandare a quella notte di duemila anni fa quando, come ricorda l’evangelista Luca, «Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio». Il presepe, infatti, scrive il Papa nella lettera apostolica Admirabile signum sul suo significato e valore, «è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura».
Ecco perché papa Francesco, rendendo nuovamente omaggio al Santo di cui ha assunto il nome, il 1° dicembre 2019 ha ripercorso per così dire a ritroso l’itinerario del presepio, risalendo alla sua sorgente. E cammina, cammina, da quella Greccio in cui tutto ebbe inizio, ha diffuso non solo un documento, ma anche e di nuovo i mille rivoli discendenti di una meravigliosa devozione che si rinnova costantemente. Un anno dopo, nello scenario completamente mutato dal Covid, si può apprezzare ancor di più la lungimiranza di quella scelta. Perciò abbiamo voluto ricalcare idealmente i passi del Pontefice, fino alla mangiatoia di Greccio. E poi, cammina, cammina, toccare altri due luoghi simbolo del presepio – Napoli e Piazza San Pietro – per percepire la scena della Natività con occhi nuovi e riscoprirvi il messaggio che anche «alle tristezze e alle angosce» del presente quel Bambino deposto in una mangiatoia trasmette chiaro e forte.
Greccio, ovvero la mangiatoia. «Greccio ne è sinonimo», dice Domenico Pompili. «Nella sua intuizione gravida di futuro – ricorda il vescovo di Rieti (nel cui territorio ricade la località francescana) – san Francesco è andato all’essenziale. E il Papa sulle sue orme. Il primo presepio, infatti, fu poco più che una mangiatoia in una grotta. Ma la mangiatoia richiama il cibo, quindi l’Eucaristia. E il Cristo che vi è deposto è il nostro pane per la vita eterna. Un pane vivo – sottolinea ancora il vescovo – al punto che in quella notte del 1223, mentre Francesco predicava, qualcuno ebbe la visione del Bambino tra le sue braccia. La Parola si fa carne». Sarà anche per questo che il santuario reatino non perde il suo fascino? Dopo la visita pubblica del Papa (che già vi era stato in forma privata nel 2016) i pellegrinaggi hanno ripreso vigore. «Neanche la pandemia ha fermato i fedeli – dice il vescovo Domenico –. E vengono soprattutto famiglie. Perciò idealmente, in questo periodo così particolare, vorrei accostare il volto del Bambino Gesù a quello dei nostri anziani. Il Covid ne ha portati via molti e ci ha fatto comprendere meglio la loro importanza. A Greccio, luogo del primo presepio, portiamo idealmente tutti i nostri nonni, perché questo può essere d’ora in poi il santuario del dialogo intergenerazionale raccomandato dal Papa».
Napoli, ovvero anche noi nel presepio. Anche i nonni tra i personaggi del presepio, dunque. Superando vecchi e nuovi pregiudizi. Ma se c’è un posto che ha fatto del presepio il luogo inclusivo per eccellenza, quella è Napoli, città in cui i versi di Emily Dickinson citati lo scorso 24 dicembre dal Papa si materializzano: «Da quella notte la residenza di Dio è accanto alla mia. L’arredo è l’amore». E se l’arredo presepiale partenopeo contempla almeno nove statuine (Sacra Famiglia, bue e asinello, i tre Magi e l’Angelo) e tre ambienti (la stalla con la mangiatoia, i pastori e l’albergo), Napoli tutta intera è entrata nel presepio lungo i secoli con i suoi abitanti e la sua fantasia. «Ogni anno mi stupisco – sottolinea la scrittrice Wanda Marasco – davanti alle invenzioni degli artigiani di San Gregorio Armeno, che aggiungono sempre nuove figure». In tal modo il presepio «diventa spazio dell’attesa e della speranza, atto politico oltre che religioso, con le sue classi sociali mescolate e in dialogo tra loro, l’energia vitale che permea ogni cosa e l’umanesimo profondissimo che – come direbbe papa Francesco – ci fa capire in un solo colpo d’occhio di essere tutti sulla stessa barca. Non c’è razzismo nel presepio, ma convivenza e integrazione». Tuttavia, tra tutti i presepi napoletani, ce n’è uno che sta particolarmente a cuore all’autrice de ‘Il genio dell’abbandono’ (Neri Pozza, 2015), romanzo sulla vita dello scultore Vincenzo Gemito, che si apre proprio con una filastrocca presepiale: « Coscia caduta d’ ’a muntagna, capa sengata, vraccio ruciuliato, pede sciuliato ». È l’elenco delle statuine ‘spezzate’ che un tempo si portavano a far riparare, «simbolo – dice Marasco – dell’umanità sofferente che è rappresentata nel presepio del Museo degli Incurabili. Malati di peste, ciechi, amputati, storpi, tutte le patologie del ’700, e anche i medici. Oggi – propone – bisognerebbe metterci anche un malato di Covid con la bombola d’ossigeno. E insieme a loro Giacomo Leopardi, il grande poeta morto a Napoli proprio per un’epidemia, nell’indifferenziato della solitudine: quasi a rappresentare i tanti che il coronavirus si è portato via senza neanche il conforto di un ultimo abbraccio». ‘Anche noi nel presepio’, verrebbe da chiosare, con le parole di un altro poeta, Gianfranco Lauretano, che nel 2001 scrisse a mo’ di preghiera: «Io sono quello a mani vuote, che viene vergognandosi, inciampando (…) Ma tu sei quello che si fa carne, divina compassione del mio vuoto». E dunque anche nel ‘vuoto relazionale’ della pandemia il Bambinello tende le sue braccia.
Piazza San Piero, ovvero il presepio ‘vivente’ che è nel povero. Quelle stesse braccia che, cammina cammina, grazie al genio di Gian Lorenzo Bernini sono diventate colonnato di piazza San Pietro e simbolo dell’abbraccio della Chiesa a tutti gli uomini. Ecco perché, specie in questo Natale segnato dalla pandemia, il centro della cristianità è diventato il sito presepiale degli ‘abbracci’ (ben 102). Oltre a quello ai piedi dell’obelisco centrale, c’è la ‘Mostra dei 100 presepi’ sotto il colonnato e la scultura in bronzo ‘Angels Unawares’ di Timothy Schmalz, che raffigura una barca con un gruppo di migranti e rifugiati di diversa estrazione culturale e razziale. In questi giorni uno speciale presepio anch’essa, grazie alle luci puntate sulle tre figure che riproducono la Sacra Famiglia all’interno del gruppo. «Nei 100 presepi sotto il Colonnato – spiega l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, dicastero che ha promosso l’esposizione – abbiamo voluto raffigurare l’abbraccio di Cristo a tutta l’umanità in questo tempo in cui dobbiamo evitare gli abbracci fisici per non diffondere il contagio». Il pensiero corre immediatamente alla preghiera del Papa il 27 marzo scorso in questa stessa piazza. «Anche quello fu un abbraccio al mondo – sottolinea Fisichella –. E c’è chi ha colto il nesso. Uno dei presepi in mostra, infatti, riproduce quella solitaria preghiera del Santo Padre aggiungendo alla piazza e alla croce, la mangiatoia con Gesù Bambino. Così come in altre rappresentazioni vi sono i poveri, i dimenticati (ad esempio c’è un presepio ambientato tra le macerie di Amatrice), i sofferenti». Si istituisce così un dialogo della fede e dell’arte con le due altre macroraffigurazioni della piazza. Il gruppo bronzeo che ricorda che anche Gesù fu un migrante. E il presepio in ceramica dell’Istituto d’arte ‘F.A. Grue’ di Castelli in Abruzzo, che accanto a figure tradizionali propone persino un astronauta.
Su quest’ultimo molte parole sono state spese nelle ultime settimane, quasi sempre senza centrare il cuore del messaggio. Non è infatti secondo categorie estetiche (bello/brutto) che la raffigurazione proposta va interpretata, bensì secondo una visione spirituale che nel minimalismo dell’allestimento scenico, nella staticità dei singoli personaggi e nel loro distanziamento appare perfettamente in linea con il clima della pandemia. Solo nel gruppo della Sacra Famiglia, sormontato dall’angelo protettivo, ritroviamo quel calore familiare che è l’antidoto al vero virus della nostra epoca: l’individualismo. Un presepio giusto al momento giusto, dunque, perché sembra voler mettere in guardia dall’eclissi d’amore, di relazione interpersonale e di solidarietà che regrediscono l’umano nella fissità statuaria. E allora cammina, cammina, l’itinerario Greccio-Napoli-piazza San Pietro ci conduce inevitabilmente alla meta finale. Come ha detto papa Francesco – invitando a «visitare soprattutto il presepio vivente che è nel povero» -, «mentre la rovina è che ognuno va per la propria strada, nel presepio tutti convergono verso Gesù, principe di pace nella notte del mondo». Anche al tempo del Covid.
Avvenire – Mimmo Muolo